Sessant'anni e non sentirli. Da bergamasco onorario, uno dei tanti rimasti a vivere all'ombra delle Orobie dopo aver onorato la maglia dell'Atalanta. Oggi siede sulla panchina dell'AlzanoCene, sana società di una provincia sempre fertile in materia di pallone. Ma in passato Giorgio Mastropasqua, che taglia il traguardo della terza età senza rimpianti e continuando a fare oltre quella riga bianca il mestiere che è sempre stato nelle sue corde, pur in una carriera senza trofei in bacheca è riuscito comunque a distinguersi. Perché è uno del ristretto club dei professionisti della pedata che hanno indossato sia la casacca della Juventus che quella della Dea, e soprattutto in quanto pedina di scambio estratta dalla manica piena d'assi di Giampiero Boniperti per portarsi sotto la Mole uno dei più grandi di sempre: GaetanoScirea.
Era l'estate del 1974. Madama, reduce da uno scottante secondo posto dietro la Lazio di Giorgione Chinaglia e del condottiero Tom Maestrelli, decide che è ora di dotarsi di un nuovo leader. Uno in grado di tenere in mano la bacchetta di direttore d'orchestra giostrando dalla terza linea, una sorta di Franz Beckenbauer nostrano. La scelta cade sul quasi sconosciuto libero di Cinisello Balsamo, che ha appena contribuito a un discreto campionato cadetto dei nerazzurri dopo un'amara retrocessione. Per far scendere a compromessi un uomo come il presidentissimo Achille Bortolotti, alla vecchia volpe di Torino non rimane che sparare alto, altissimo: 700 milioni, più il libero-mediano di Rivoli (dov'è nato il 13 luglio 1951) e il terzino Gian Pietro Marchetti. Affare fatto: Gai si avvia su sentieri di gloria assoluta, da eroe destinato a cadere sul campo una volta passata la barricata; il prode Giorgione, 182 centimetri, buon tocco di palla e la capacità innata di adattarsi a qualunque esigenza del copione tattico, infiamma da par suo il caloroso pubblico stipato nel vecchio stadio baciato dal sole della Maresana.
Cinque stagioni a difendere i colori della Ninfa del pallone che parla il dialetto di Gioppino, condite da 135 presenze, 13 reti e due sole annate - le ultime a Bergamo da giocatore, agli ordini del mitico Titta Rota - al piano di sopra (tempi grami, allora): il palmarès di un campione d'umiltà, che nonostante doti tecniche ben superiori a un Gattuso o a un Volta - senza offesa - di oggi si adattò a saliscendi di categoria che non avrebbe meritato, pagando forse il non essersi mai immedesimato in una definizione di ruolo precisa. Cresciuto nel vivaio juventino, ebbe la sfortuna di vestire la divisa della prima squadra solo in due occasioni. Per il resto, le tappe di una lunga parabola da girovago si chiamano Perugia, Ternana, Bologna, Lazio, Catania, Piacenza, Pavia. Adesso c'è la missione di conservare una dignitosa serie D. Ancora in bianconero, e pazienza se in tono minore. Tantissimi auguri.
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