Non hanno certo lasciato tracce indelebili del loro passaggio sotto la Maresana, ma aver timbrato il cartellino nerazzurro è un titolo di per sé sufficiente a farli finire dritti nella nostra rubrica. Oltre al mostro sacro Angelo Domenghini, nello spazio a metà tra candeline e amarcord c'è dunque posto anche per due figure di secondo piano - senza offesa - come Giuseppe Compagno (oggi 44 anni) e Carlos Alberto Bianchezi (47). Entrambi attaccanti, con cifre nemmeno troppo lontane - 25 presenze e 3 reti (tutte in B) per il primo, 29 e 8 per il secondo -, anche se il palermitano ebbe a disposizione solo spizzichi e bocconi tra 1985 e 1989 con un prestito al Piacenza di mezzo, mentre al presunto asso do Brasil arrivato a rimpiazzare Evair venne concessa una chance da titolare nella stagione 1991/92.
Il palermitano Compagno, classe 1967, cresciuto all'ombra del Monte Pellegrino ma sfamatosi a pane e pallone anche alla fertile mensa di Zingonia, recita la parte del rincalzo per varie annate prima di lanciarsi in una lunga carriera altrove, con picchi interessanti a Pescara - le ultime apparizioni in A nel 1992/93 - e nella città natìa. Dopo aver esorditonella massima serie il 2 novembre 1986 in Verona-Atalanta 2-1, colleziona 8 presenze nell'anno della retrocessione ma disputa entrambe le finali di Coppa Italia contro il Napoli di Maradona già scudettato. Quindi la cadetterìa vissuta col il ricco companatico della Coppa delle Coppe, in cui riuscirà ad iscrivere il proprio nome con una presenza (12'40" scarsi, quelli finali - in sostituzione di Icardi - compreso il recupero) nella mitica semifinale casalinga di ritorno perduta con il Malines la magica serata del 20 aprile 1988. Avellino, Cosenza, Pescara, Palermo, Ancona, Reggiana, Nissa, Delianuova e Carini le stazioni successive, prima di scendere dal treno a 38 anni suonati nel 2005.
Quanto al paulista Bianchezi, detto in patria Careca III senza che nessun calciofilo di buona volontà sia mai riuscito a darsene una spiegazione valida trovando quello di mezzo tra l'originale (allora in forza al Napoli) e la blanda imitazione, va sottolineato che nell'Atalanta targata Bruno Giorgi (pace all'anima sua) fu pur sempre capocannoniere in coabitazione con l'idolo della curva Claudio Caniggia. 8 palloni in porta per entrambi, con la differenza sostianzale che l'argentino non ne segnò la metà su rigore come il centravanti. Tipo bizzarro assai, oltre che poco portato alla marcatura su azione: rimediò il cartellino rosso in ambo le sfide con il Parma, e dagli undici metri graziò il Milan (il 6 ottobre 1991, a Bergamo: partita persa 2-0 con doppietta di Van Basten) per poi rifarsi con gli interessi sull'Inter (1-0, l'allenatore dei meneghini Corrado Orrico si dimise dopo quella sconfitta) il 19 gennaio del '92, sempre davanti al pubblico amico che lo considerava bonariamente uno scarpone senza mandarglielo a dire. Nato a San Paolo il 25 agosto 1964, di chiare ma remote origini italiane, crebbe nel Marilia per poi affermarsi (si fa per dire) con club più quotati come Guarani e Palmeiras (43 match e 19 reti). Dopo la parentesi bergamasca, cinque annate piene nelle file dei messicani del Monterrey per chiudere la parabola da zingaro del pallone. Di lui i tifosi all'ombra del Campanone si ricorderanno sicuramente la figurina: taglio di capelli da cantante neomelodico di Scampia, baffo spinosissimo e faccia vagamente da indio. L'indimenticabile, insostituibile secondo seguace di un attaccante a cui non sarebbe stato degno neppure di lustrare le scarpe. Auguri.
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