Il bello di Gian Piero Gasperini, che non è amato da tutti ma al quale tutti riconoscono indubbie qualità, è che dopo aver vinto l'Europa League ripete le stesse cose che diceva prima. Schianta 3-0 il Bayer Leverkusen, una squadra capace di giocare cinquantuno partite senza perderne una e parsa una congrega di scappati di casa al cospetto dell'Atalanta, poi va in televisione e dice una roba del genere: "Io veramente non la capisco questa cosa dei trofei per giudicare. Non è che io sia migliore ora di oggi pomeriggio. Altrimenti avrebbero vinto solo Inter e Juve. E invece ha vinto il Bologna, ha vinto il Verona che si è salvato, il Lecce. Ognuno ha i suoi obiettivi". Mic drop, perché Gasperson, pochi minuti prima di dire la sua versione, ha cambiato categoria: è entrato in quella degli allenatori che vincono.
Per la precisione - dighelo, Monica - in quella degli allenatori che vincono un trofeo che un italiano non alzava da 25 anni, quando Malesani allenava il Parma e c'erano ancora le sette sorelle, anche se poi il campionato lo vincevano quasi sempre le solite tre. Intendiamoci: di vincere, Gasperini aveva di sicuro una voglia matta. La quarta finale senza riuscirci sarebbe stata troppo, persino per chi non crede che i trofei qualifichino il lavoro di un tecnico. Però, anche per questo, è bello che resti fedele alla sua filosofia, al vestito che meglio di tutti si è cucito addosso.
È il miglior allenatore italiano degli ultimi 25 anni? Forse proprio lui direbbe che sarebbe anche l'ora di smetterla con paragoni, classifiche, hitlist. La risposta, in fin dei conti, è sì ma anche no. Dipende dal contesto. Carlo Ancelotti, per citare l'obiezione più immediata alla domanda/provocazione che è nel titolo, ha vinto più di quanto Gasperini non abbia neanche mai sognato di fare. Ma avrebbe conquistato lo stesso numero di trofei, se non avesse allenato le squadre di campioni che in questo lasso di tempo ha quasi sempre allenato? Per esempio, sarebbe riuscito a prendere una banda di ragazzini, buttarli in campo e lanciare il secondo ciclo vincente più lungo nella storia recente del pallone italiano? Vincente, non avete letto male.
Perché basta guardasi indietro: quando Gasperini arriva a Bergamo parte male, cambia addirittura modulo, è messo in discussione. A un certo punto - ci piace pensare che si guardi allo specchio e si riconosca - arriva la svolta. Prende Caldara, Gagliardini, Conti, Grassi, Kessié, Petagna e li butta in campo. Ci spruzza su un po' di Papu Gomez, per carità. Non perde più, almeno non per quello che è la cifra tecnica e progettuale di quella squadra, del suo modo di allenare. L'Atalanta che ieri sera ha sfoggiato a Dublino una delle finali meglio giocate nella storia delle competizioni europee nasce lì, e poi si evolve anno dopo anno.
I protagonisti cambiano, i risultati no. Cambia pure il calcio che gli sta attorno, e lo cambia lui: la difesa a tre andava già di moda, anche se Gasperini la usava prima di Conte, di Mazzarri, degli allenatori che l'hanno imposta alla Serie A. Prima della sua Atalanta, in compenso, quante squadre giocavano uomo contro uomo, a tutto campo? Risposta facile: nessuna. È un piccolo dettaglio in una grande rivoluzione, che ha tanti figli in giro per l'Italia e per l'Europa. E il termine "risultati" calza a pennello: prima di Gasperson, la Dea aveva sparute partecipazioni alle competizioni internazionali: quattro, in centonove anni di storia. Dopo di lui: otto su otto, la metà delle quali in Champions League. Come li chiamate questi, se non risultati. Semmai, posto che un allenatore migliore di un altro o di tutti gli altri non per forza esiste, se punto di partenza e obiettivo finale non sono gli stessi, il tema è se valga anche il contrario. Ancelotti (o Allegri, o Lippi, o chi volete voi: i giovani alla Inzaghi li teniamo fuori) forse non può fare quello che fa Gasperini, ma Gasperini può fare quello che fa Ancelotti, vincere con i campioni? È la gigantesca domanda attorno alla quale gira tutta una carriera da incorniciare. Fosse sì la risposta, ecco che ci convinceremmo ancora di più. Chissà se ci sarà l'opportunità.
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