È sempre complesso giudicare una sconfitta quando a perdere è l’Atalanta di Gian Piero Gasperini. È complicato perché si rischia di commettere due errori opposti, entrambi pericolosi: o ridimensionare troppo, oppure assolvere con eccessiva facilità. Ma se esiste un punto fermo da cui ripartire dopo il 2-0 con cui l’Inter ha interrotto le fantasie di primo posto della Dea, è che non è successo nulla di irreparabile. Nulla che possa cancellare un’annata da grande squadra. Nulla che possa gettare ombre su un progetto che, a Zingonia come al Gewiss, è vivo e gode di ottima salute.
Certo, la partita con l’Inter ha messo a nudo la differenza, minima ma evidente, che separa le squadre grandi dalle ottime squadre. L’Atalanta è un’ottima squadra, l’Inter una grande squadra: la differenza sta tutta lì. Nei dettagli, nelle sfumature che emergono nel momento esatto in cui la tensione si alza. In quella concentrazione smarrita dopo un’interruzione di gioco lunga quanto insolita, nella capacità di non perdere lucidità dopo il cartellino rosso di Ederson—discutibile, severo, forse evitabile—ma che resta figlio di un nervosismo da gestire meglio, con una maturità che ancora manca.
Eppure, c’è qualcosa che questa Atalanta può e deve salvare anche nella serata più amara. La consapevolezza di aver giocato da protagonista uno scontro diretto con i campioni d’Italia, e di averlo fatto con una personalità che non è mai mancata, nemmeno quando il risultato aveva già preso la direzione più sgradita. Questo non basta a vincere un campionato, non basta forse a vincere le partite decisive contro un’Inter che da sempre sa come disinnescare il pressing nerazzurro, ma basta per tenere accesa la scintilla di un’ambizione che Gasperini ha giustamente difeso pubblicamente. Un’ambizione che non può e non deve diventare un obbligo, ma che deve restare viva.
Giuseppe Bergomi ha ragione quando dice che è giusto sognare l’impossibile, soprattutto quando quell’impossibile è così vicino, così credibile. Lo scudetto resta un obiettivo difficile, forse proibitivo, ma non per questo da abbandonare. Serve però equilibrio, anche da parte di un ambiente che negli ultimi anni è stato abituato troppo bene e che oggi, forse, rischia di pretendere ciò che dovrebbe continuare soltanto a desiderare. È questa la sfida più grande per Bergamo: rimanere fedele a se stessa, saper distinguere tra diritto di sognare e pretesa di vincere.
E in questo senso, il futuro passa anche dalle scelte che farà Gasperini, non solo tecniche. Il tecnico di Grugliasco, autentico leader non di una squadra ma di una città intera, ha già fatto intendere che potrebbe esserci aria di riflessione a fine stagione. È normale, quando le idee, i desideri e le aspettative non combaciano più perfettamente, valutare anche strade diverse. Ma quello che conta, oggi più che mai, è che Bergamo e Gasperini si guardino negli occhi e ricordino cosa rappresentano l’uno per l’altra: un binomio che ha cambiato il modo di intendere il calcio, forse per sempre.
Ora restano nove giornate per continuare a credere, per inseguire un miracolo che non è impossibile finché non sarà la matematica a dirlo. Ma, soprattutto, per riconoscersi ancora una volta nello spirito più autentico dell’Atalanta, quello di una squadra che non smette mai di provarci, anche quando sembra che la storia sia già stata scritta.
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